L’ernia

L’ernia

Durante la 2^ guerra mondiale, fra Daniele era di comunità nel convento di Sant’Anna di Foggia. Ha assistito con impotenza e ha visto gli orrori della guerra. La città è stata rasa al suolo, con inaudita ferocia, prima dai tedeschi e poi dagli alleati Anglo-Americani. Particolarmente colpite le zone: della stazione ferroviaria, della Villa Comunale e del Piano delle «fosse», luogo ove si conservava il grano del Tavoliere.

I feriti e i morti si contavano a centinaia e a migliaia. Fra Daniele, dopo il suo lavoro in convento, si recava in mezzo alla gente che soffriva e piangeva per portare una parola di conforto e di speranza; si prendeva cura dei feriti, li puliva e fasciava le loro piaghe; aiutava a seppellire i morti e poi, stanco, faceva ritorno al convento. II convento di Sant’Anna era rimasto miracolosamente illeso, mentre intorno era tutto un ammasso di macerie e di case cadute; tra le macerie si aggiravano degli individui (sciacalli) che portavano via tutto a spese della povera gente che, assieme alla casa, aveva perso anche delle persone care.

Il Superiore era preoccupato di tutto questo e anche dei tedeschi che, andando via per l’arrivo degli Alleati, potessero entrare in convento e far razzia degli arredi sacri. Dopo un terribile bombardamento, dalla masseria, in località Posta Rosa, più vicino a Manfredonia che a Foggia, venne mio cognato Antonio Fiore, per accertarsi delle condizioni sia dei frati che del convento e se ci fosse stato bisogno di qualcosa. Al vederlo ho provato un senso di tranquillità e di sollievo, anche perché mi aveva portato notizie dei miei cari. Il mio primo pensiero è stato quello di portare gli arredi sacri in campagna, da lui, dove sarebbero stati più al sicuro. Ricevuto il consenso del Superiore e aiutato da mio cognato, presi tutte le suppellettili di un certo valore, li caricammo sul carretto portandoli alla masseria. Finita la guerra e andati via i tedeschi, si respirava un’altra aria, gli animi erano un po’ più tranquilli e vi era più fiducia in tutti specie dopo tanta disperazione e lutti. Si era alla fine di settembre del 1943, l’armistizio era stato già firmato, e stava per iniziare la novena in onore di San Francesco, per la festa servivano i paramenti sacri, quelli un po’ più solenni, ma erano tutti in campagna. Chiedo il permesso al Superiore e vado a prenderli.

Il cavalcavia, per entrare in città, non esisteva più, i tedeschi, prima di andare via, l’avevano fatto saltare, per cui bisognava attraversare non solo i binari della ferrovia ma anche le fosse che si erano create tra un binario e l’altro; malgrado il nostro aiuto, il carretto rimaneva incastrato e i cavalli non riuscivano a tirare all’altra parte. Che fare? Si decise di portare a mano la roba alla parte opposta e, solo dopo aver alleggerito il carretto si riuscì a passare. Il sottoscritto, non abituato a fare gli sforzi, all’improvviso sente come uno strappo vicino l’inguine; ho sentito un po’ di dolore ma non ho dato importanza. Dopo qualche giorno mi sono accorto di essermi procurata un’ernia. Passa per il convento il professor Correra, primario dell’ospedale di Campobasso, diretto a San Giovanni Rotondo, per andare da Padre Pio, ed essendo amico dei frati, il Superiore lo conosceva bene, lo prega di visitarmi. Dopo avermi visitato, dice: «Questa è una brutta ernia». Mi consiglia di operarmi, era l’unico rimedio e, nel frattempo mi ordina una fasciatura stretta, come sospensorio. Non contento, mi feci visitare dal professor De Capua, primario chirurgo della maternità di Foggia, anche lui amico dei frati e molto preparato. «Fra Daniele, ma che hai combinato, …come fai a muoverti, qui c’è un’ernia talmente grande che si può strozzare da un momento all’altro. Devi operarti e anche subito». L’ospedale, praticamente, non esisteva. Metà era stato distrutto dai bombardamenti e l’altra metà era occupato dagli Alleati. Vi era, su Via Napoli una clinica di proprietà del professor Ventura.

Il Superiore, padre Emilio da Matrice, era confessore delle suore e anche del professore di suddetta clinica. Gli parla del mio caso e si mettono d’accordo di operarmi appena si fosse liberato un posto letto. Dopo qualche giorno, il Superiore, tornato da confessare, mi chiama: «Fra Daniele, il posto letto si è liberato. Presto, preparati e vai in clinica prima che venga occupato da qualche altro». Preparo un po’ di biancheria intima, prendo la borsa e, non essendoci macchine, mi avvio a piedi prendendo delle scorciatoie. Lungo la strada recito il Santo Rosario ed intanto penso: «I miei genitori non sanno niente, sono già addolorati e mortificati perché non hanno notizie di mio fratello che è in guerra e, non sanno se è vivo o morto, ora quest’altra mortificazione ci vuole per quei poveri vecchi». Mi rivolgo a Padre Pio: “Padre, gli Americani, al refettorio, ci hanno raccontato un fatto grandioso operato da voi, intercedi anche per me presso il Signore e la Mamma Celeste, perché l’operazione possa andare bene e possa tornare subito in convento”.

Arrivato in clinica, essendoci la cappella a piano terra, entro, faccio la visita a Gesù Sacramento e, poi salgo al primo piano. Spesso andavo a trovare i malati per portare una buona parola, e per tirarli un po’ su di morale, scherzavo con loro dicendo qualche battuta che potesse farli ridere, come: «Beh, ti hanno messo la chiusura lampo,…ora come ti senti?…ecc.». Sopra trovai le suore che mi aspettavano che, conoscendo il mio modo scherzoso, si misero a ridere: «Eh, fra Daniele…», ed io: «Purtroppo ora tocca a me». «Senti, fra Daniele, mettiti dietro la porta del professore, appena esce quello che sta dentro, tu bussa, chiedi il permesso ed entri». Così ho fatto. Il professore nel vedermi dice: «Ho parlato con padre Emilio e mi ha detto dell’ernia. Spogliati e vediamo, così faccio il segno per la pulizia e dove intervenire». Il professore, dopo avermi visitato: «Mah, qui non c’è niente». Ma dico: «Se prima di venire qui ho fatto la doccia e ho notato che c’era». «Senti, stenditi sulla barella». Mi fa una visita più accurata. «Fra Daniele, qui non solo non c’è l’ernia, ma non c’è mai stata». Sorpreso e quasi deluso, dico: «Ma professore non scherziamo», e lui: «Fra Daniele, se vuoi essere operato a tutti i costi, io ti opero», e calcando le parole, ripete: «Qui l’ernia non esiste». Ero sicuro di avere l’ernia, mi era stato confermato da due illustri dottori, perciò mi permisi di insistere: «Guardi, professore, che sia il dottor Correra di Campobasso che il dottor De Capua della Maternità di Foggia, che mi hanno visitato, hanno confermato che ho l’ernia e che devo operarmi al più presto». «Correra e De Capua, due miei vecchi amici, e sono anche molto bravi. Ma qui, caro fra Daniele, l’ernia non c’è e ti ripeto che se vuoi essere tagliato io ti taglio (se vuoi essere operato io ti opero)». Avevo quasi vergogna di ritornare in convento senza essere operato; pensavo che sarei stato oggetto di derisione da parte dei confratelli, per cui ho fatto di tutto per arrivare fuori orario per non incontrarli subito. Erano passati ormai dieci anni e non pensavo più a quello che mi era capitato. Dopo un periodo di permanenza nel convento di San Giovanni Rotondo sono stato trasferito a Vico del Gargano. Non stavo ancora bene, sia fisicamente, ero ancora a letto, e sia moralmente per il trasferimento. Ogni sera Padre Pio nell’uscire dal coro, dopo la preghiera, passava a salutarmi e dare la benedizione. Una di queste sere, vedendomi piangere, dice: «Uagliò, ma perché piangi?…ti senti male?».

Ed io: «Padre, non ce la faccio più, solo al pensiero di allontanarmi da te mi fa sentire male…vorrei piuttosto morire» e, il Padre: «Né uagliò, credi che mi comporto come una madre snaturata, che fa (mette al mondo) dei figli e poi li abbandona? Non ti ricordi quando sei andato alla clinica per operarti d’ernia…», e mi dice tutto quello che era successo. Io non l’avevo mai detto ad alcuno. Ricordo che spiritualmente l’avevo ringraziato, ma personalmente non gli ho mai detto grazie per questo; anche perché mi ero rivolto a lui per far sì che l’operazione andasse bene e non perché mi sparisse l’ernia, che non ho mai più avuto. E Padre Pio continua:

«Ti ho detto questo non per essere ringraziato, ma per farti capire quanto ti sono, e ti sarò, vicino». Queste parole non solo mi hanno confortato e sollevato, ma mi hanno dato la certezza che Padre Pio non mi avrebbe mai abbandonato, come di fatto posso confermare.

 

 

 

 

 

(tratto da “Fra Daniele racconta…le sue esperienze con Padre Pio” di Padre Remigio Fiore cappuccino – Edizioni Frati Cappuccini 2001)

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